Enigma dell’infinito

La solitudine dell’uomo ha trovato in De Chirico un altissimo e modernissimo poeta di intensità leopardiana. Che questo comporti, da parte del Maestro una condanna quasi totale dell’arte contemporanea non deve trarre in inganno circa la vitalità della sua presenza e della sua partecipazione alla sensibilità del tempo in cui esistiamo. Già Degas aveva detto che “Bisogna scoraggiare le arti”, e ciò non è mai stato motivo di scandalo. De Chirico semplicemente ha compreso, con enorme anticipo sui pittori della sua generazione (e questo a livello mondiale, non semplicemente nazionale), che una pittura nuova non potrà mai consistere in una novità di formule o di trouvailes, per il semplice motivo che la pittura stessa è una trouvaille. Quel che conta sul serio è la verità che vi è insita, una verità che può essere ricercata nel “mistero” metafisico come nella “bella materia” della pittura antica.
La fama di De Chirico è indubbiamente legata alla nostalgia e all’inquietudine della pittura metafisica: si tratta di dipinti in cui elementi reali e immaginari convivono per creare un insieme enigmatico.


I primi quadri ispirati a temi metafisici risalgono al 1910, mentre la metafisica come teoria e scuola pittorica nasce nel 1917 dall’incontro con il pittore Carlo Carrà a Ferrara. Rispetto alle avanguardie, come l’astrattismo e il dadaismo, la pittura metafisica sembra un’arte tradizionale perché permette ancora di riconoscere il soggetto. Sulle tele compaiono piazze e nature morte, ma l’aspetto familiare degli oggetti tradisce un’atmosfera magica e misteriosa: tutto è immobile, non c’è vita, non ci sono personaggi, solo statue e ombre; gli uomini diventano malinconici manichini. Altre volte l’artista dipinge interni magici simili a laboratori, pieni di oggetti il cui rapporto sfugge a ogni logica: perché sono avvicinati biscotti e manichini, righelli e cartine geografiche. L’artista deforma la prospettiva, descrive nelle sue inquadrature piani inclinati verso il basso, come se gli oggetti potessero scivolare verso l’osservatore, che resta incerto e spaesato.
Titoli misteriosi accentuano l’atmosfera magica di queste opere: Enigma della torre, Incertezza del poeta, Enigma dell’ora, Tributo dell’oracolo.
Nessuno, mi sembra, abbia compreso che il senso profondo dell’operazione di De Chirico, pictor optimus, risieda nella coscienza netta del divario tra “grande pittura” e mondo moderno. La sua assunzione di tecniche e forme del passato non è nostalgica, o almeno non è soltanto tale; essa cela una satira appassionata verso una umanità dalla quale il pittore, solitario non per vocazione o per scelta, ma perché costrettovi, è in pari tempo respinto e attratto.
E questa satira il Maestro la esplica anche nei riguardi di sé medesimo, dipingendosi nelle pose e con i costumi più strani, esplorando impietosamente il proprio volto o il proprio corpo, come nello stupendo “Autoritratto nudo”. De Chirico si conosce benissimo; sa di essere un uomo profondamente buono e intelligente, esposto ai colpi altrui senza altra possibilità di difesa che quella di prevenirli criticandosi.
La pittura metafisica, da questo punto di vista, non è diversa dalla sua ultima produzione: ciò che il Maestro pone in discussione è sempre e comunque la profonda asincronia tra vita poetica e vita reale, tra il proprio modo di essere e quello dei più.
Le tele più celebri rappresentano piazze assolate e vuote, dove tutto appare fermo e silenzioso: unica traccia di vita è un treno che corre all’orizzonte o una ciminiera fumante. Si riconosce solo qualche ombra o una statua isolata e la loro solitudine esprime l’incomunicabilità dell’uomo. La presenza di statue, castelli, portici rinascimentali ricorda alcune piazze italiane, ma nessuna di quelle dipinte esiste davvero, perché l’artista le modifica secondo le sue esigenze. Invece che luogo d’incontro sociale, le piazze di De Chirico sono spazi vuoti, dove non è più possibile incontrarsi, dove le poche figure dipinte scompaiono al confronto delle grandi architetture, appaiono estranee e inquietanti finendo per diventare appunto ‘metafisiche’. Sembrano luoghi reali, ma colori e luci innaturali, prospettive assurde e accostamenti impossibili le spingono verso una dimensione che va oltre la realtà e che sconfina nell’immaginario.
Che De Chirico, alla lunga e contrariamente al parere della maggioranza abbia avuto ragione, lo si vede da quanto accade fra i giovani; basti por mente alle copie da Picasso o da Cezanne di un Lichtenstein e a tanti altri casi analoghi (penso alle scene caravaggesche di Bill Viola). Tra i cavalieri secenteschi di De Chirico e Picasso ridotti a fumetti di Lichtenstein vi è un nesso non trascurabile; sempre tenendo conto che il primo ha precorso l’americano di almeno trent’anni e con ben altro prestigio culturale e artistico e soprattutto con ben altro coraggio. Poiché oggi, da parte dei pop e video artists è facile “giocare”, per esempio al “giorgionismo”; quando l’ha fatto De Chirico il rischio di essere preso sul serio, di non poter far comprendere quanto di amarezza e di poesia e di ironia si celasse dietro un “gioco” (un gioco terribilmente difficile) che poteva sembrare meramente fine a se stesso, era tremendo.
Ma De Chirico, come tutti gli artisti sommi, non ha mai avuto paura di andare controcorrente e di porre a repentaglio la propria stessa fama.
A partire dal 1919 De Chirico si allontana dallo stile metafisico, frequenta i musei e copia i quadri più celebri per riscoprirne lo stile e studiarne la tecnica. Le sue tele si popolano di cavalli in riva al mare, mobili, pezzi di colonne o altri reperti archeologici: antichi gladiatori si uniscono ai manichini. Questi soggetti si ripetono anche nei decenni successivi, quando il suo stile si ispira alla pittura barocca e assume un accento teatrale: personaggi mitologici, nudi femminili dalle forme morbide e nature morte sono descritti con linee ondulate e pennellate cariche di colore che ricordano lo stile energico del pittore fiammingo Rubens. L’amore per la pittura metafisica torna a imporsi nelle ultime opere, dove De Chirico conferma così il suo desiderio di svelare il mistero dell’esistenza attraverso il fascino dei suoi quadri.
De Chirico è stato sempre, in ogni suo periodo, un grandissimo pittore e tale rimane e come tale va onorato. Egli può avere avuto momenti di crisi o di stanchezza o di abilità puramente manuale (e che dire, allora, del vero e proprio disfacimento dell’ultimo Carrà, e degli stereotipi formali nel tardo Morandi?), ma ancora oggi la sua arte è capace di incidere nel vivo del sentimento contemporaneo. Con grande fatica anche i critici più sprovveduti e bigotti si sono resi conto che la condanna bretoniana del De Chirico post-metafisico non ha alcun valore reale.
Opere come le “Ville romane” o come i “Bagni misteriosi”, sono state ormai da molti annesse, seppure con grandi riluttanze, al regno ristretto dei capolavori della pittura mondiale. Sicuramente, a mano a mano, altre opere subiranno la stessa glorificazione. Ma questo non basta poiché i riconoscimenti parziali non fanno che sviare l’attenzione dal problema di fondo, vale a dire la complessità, ma anche l’integrità monolitica della personalità artistica di Giorgio De Chirico. Una personalità che va presa in blocco, poiché non vi è fase o periodo della sua carriera che possa essere considerato a se stante.
L’Italia ha dato ben poco al suo massimo artista del XX secolo. È giunto il momento di affermare che De Chirico non è un pittore del passato da soffocare in vane nuvole di incenso, ma è il pittore dell’avvenire. Non solo nel senso che la vera misura della sua grandezza è ancora tutta da scoprire, ma soprattutto perché egli è il più moderno, il più vivo e geniale tra gli artisti della propria generazione, il più ricco di intuito e di preveggenza.

Pasquale Lettieri