Pablo Picasso del mio cuore.

Già più volte ho avuto occasione di parlare di Picasso, di annotare le geniali doti di questo artista, ma le opere esposte alle Scuderie del Quirinale (realizzate tra il 1915 e il 1925), mi hanno offerto uno spunto unico per riflettere su uno dei più grandi maestri rivoluzionari della storia dell’arte, poiché annunciano un momento solare della sua inclinazione. Non che nulla persista delle primitive figurazioni torbide: Picasso è andaluso, e forse la predilezione per le immagini e gli accenti dell’angoscia sono un marchio incancellabile di razza, per gli spagnoli. Tutto lo incanta; l’incontestabile talento che egli ha, mi sembra messo al servizio di una fantasia che mescola in giuste dosi il magnifico e l’orribile, l’abbietto e il delicato. Il suo naturalismo scrupoloso, di precisione, si abbina a quel misticismo che se ne sta rannicchiato in fondo a tutte le anime spagnole, anche le meno religiose; Castelar portava in tasca un rosario, si sa; e se Picasso non è stato troppo religioso, come credo, scommetto che si sarà comunque riservato una raffinata iperdulia per santa Teresa o per sant’Isidoro. Tutti i mutamenti di Picasso si sono prodotti non per esigenze teoriche, bensì solo in forza della sua emotività; senza mai enunciare precetti, anzi, al contrario, avvolgendosi di silenzio, Picasso allarga la propria visione ed estende il proprio dominio. Fin dalla giovinezza c’era in lui un’aspirazione all’infinito attraverso consecutive operazioni: incatenamenti impensati e interruzioni inevitabili, i cui effetti rilucono nelle opere più tardive. A Roma ho visto, alle Scuderie del Quirinale, maschere che, dopo un’orgia conclusa non di rado con un assassinio, la mattina vanno in San Pietro a baciare l’alluce consunto del principe degli apostoli: questi lo affascinerebbero molto. Sotto gli orpelli chiassosi dei saltimbanchi snelli che egli dipinge si avvertono indubbiamente i giovani del popolo, ingegnosi, maliziosi, furbi, poveri e bugiardi; le madri che egli fa raggrinzano certe mani sottili come spesso le hanno proprio le giovani madri delle classi popolari; il tosone che i pittori tradizionali disdegnano, e che è lo scudo del pudore occidentale, le sue donne ignude lo ostentano, invece. Picasso ha conferito ai personaggi sentimenti soggettivi, la cui intensità era in perfetta armonia col proprio temperamento passionale e col suo modo di sentire fortemente. E ciò a volte gli ripugnava: si giudicava in colpa, per aver creato un’opera che reputava eccessivamente romantica.

 

 

“È solo sentimento”, diceva. Egli intendeva escludere dalla propria arte qualsiasi elemento di carattere sentimentale, in vista di raggiungere un’obiettività. Una diffidenza, che s’è accentuata con gli anni, verso la sua intima sentimentalità, contro la quale ha reagito con tutte le forze, come eloquentemente testimonia il gran numero di nature morte dipinte; ma anche la lotta senza quartiere intrapresa contro l’aneddoto costituisce una chiara prova della diffidenza di Picasso verso il sentimento. Questo medesimo motivo lo induce ad abbandonare l’abitudine di trascrivere la natura umana quanto più fedelmente le capacità glielo consentissero; e mentre si applica all’espunzione dell’episodio e al contenimento della propria violenza emotiva, per portarsi nel dominio della plastica, tenta di procurarsi un equivalente della natura, di assicurarsi una qualche recitazione della vita, di affermare con maggiore generalizzazione l’essenza della creatura umana. Perciò la scomparsa del sentimento, nelle figure del ‘periodo rosa’, e la soppressione di tutto ciò che poteva insinuarvisi, di pertinenza troppo esclusiva. Picasso le libera dalle loro storie personali, dalle occorrenze, dalle vicende contingenti, e ne consegue un arricchimento plastico: le superfici delle figure si ampliano, le proporzioni dei corpi si alterano, predomina un tipo dalla grande testa e dal corpo in certo modo scorciato, i particolari si semplificano all’estremo e vengono assai più assunti in funzione dell’architettura d’assieme della figura. E anche il colore s’allinea al generale sforzo semplificativo. Senza Picasso il Ventesimo secolo non sarebbe stato il Ventesimo secolo. Senza di lui non avremmo la stessa idea di modernità che abbiamo oggi. E anche la capacità di combinare le varie tendenze del secolo (forma e colore, disegno grafico e pittura, surrealismo e cubismo…), la dobbiamo essenzialmente a lui. Sembra che per ogni secolo l’umanità riceva il dono di un genio, di qualcuno, cioè, che sappia portare il filo di un discorso alle sue massime conseguenze; in Spagna nel 1828 moriva Francisco Goya. Il suo erede, Pablo Picasso, nasceva ugualmente in Spagna nel 1881.

 

Pasquale Lettieri.